sabato 19 marzo 2016

Basket e diritti civili: i Texas Miners e l'NCAA 1966



"Come si fa a fermare cinque negri che stanno sfondando una bianca? Gli tiri una palla da basket!" (Full Metal Jacket)

Nell'America che arriva al giro di boa degli anni Sessanta la questione razziale rimane un nodo ancora ben aggrovigliato: nonostante la condanna da parte della Corte Suprema delle politiche discriminatorie perpetrate negli Stati del Sud, le cronache narrano di omicidi, arresti a tappeto, incendi. E c'è pure un clamoroso caso di ostruzionismo al Congresso, quello del senatore dixiecrat Strom Thurmond che nel 1957 parlò ininterrottamente per 24 ore e 18 minuti per non far passare una proposta di legge del presidente Eisenhower sui diritti civili. Non esiste settore della società che non diventi terreno di scontro: il lavoro, la religione, i trasporti pubblici, anche - e soprattutto - l'istruzione.

Anzi: è proprio nelle high school e nei college che i conservatori combattono le loro battaglie ideologiche contro la Corte Suprema e la storica sentenza del processo Brown vs Board of Education del 1954 sulla desegregazione scolastica. Il Mississippi promulga una legge che multa o addirittura imprigiona i bianchi che frequentano le scuole con i neri, in Virginia vengono elargiti gruzzoletti di dollari agli istituti privati affinché mantengano in essere la divisione razziale, Georgia e South Carolina si accodano chiedendo il blocco dell'integrazione nelle aule.

In Arkansas il governatore Orval Faubus fa addirittura intervenire la Guardia Nazionale per scongiurare l'ingresso di studenti neri in una scuola superiore - l'episodio passa alla storia come "crisi di Little Rock" - mentre il Texas fa chiudere gli istituti dove vengono mandate le truppe federali per attuare la desegregazione.

Nonostante prolungate resistenze, però, i neri possono iniziare a frequentare gli atenei del profondo Sud. Come James Meredith, attivista per i diritti civili che nel 1962 diventa il primo studente afroamericano a mettere piede alla University of Mississippi. O come Vivian Malone e James Hood che l'anno seguente, grazie anche all'intervento del presidente Kennedy, s'immatricolano alla University of Alabama a dispetto dello Stand in the Schoolhouse Door: è il sit-in di protesta inscenato dal governatore George Wallace, democratico segregazionista che nel 1968 concorrerà alle elezioni presidenziali da candidato indipendente ottenendo il 13,7% dei consensi popolari.


L'ammissione all'università, però, non coincide immediatamente con una maggior presenza nelle squadre sportive: nel campionato NCAA di basket svariati allenatori schierano quintetti base formati quasi interamente da bianchi, nonostante i primi casi di giocatori neri risalgano addirittura a inizio secolo.

I Miners, la squadra del Texas Western College, costituiscono un'eccezione nel panorama nazionale: già negli anni Cinquanta si vedono ragazzi afroamericani volare a canestro. Nel 1961 la guida tecnica passa al giovanissimo Donald "Don" Lee Haskins: ha giocato tre stagioni in Oklahoma, ritirandosi ad appena 22 anni per intraprendere la carriera di allenatore. Quello con all'ateneo di El Paso è il suo primo vero incarico dopo un quinquennio di gavetta nelle high schools.

I Miners non sono una squadra dalle grandi tradizioni. Anzi, a dirla tutta non hanno mai partecipato all'NCAA. Debuttano nel 1963 contro i Longhorns della University of Texas di Austin che avanzano al turno successivo con un distacco di quasi venti punti: i Miners non potevano immaginare esordio peggiore. Va leggermente meglio l'anno seguente con la qualificazione alle semifinali regionali contro Kansas State: il centro Jim Barnes raggiunge il limite di falli dopo appena otto minuti e i Miners perdono 64-60. Per lui è l'ultima partita da non professionista - in estate sarà selezionato dai Knicks come prima scelta al draft -, per Haskins rimarrà un eterno cruccio, convinto com'era che la squadra aveva tutti i requisiti per vincere il torneo.

Pochi mesi dopo, il 2 luglio, il presidente Lyndon Johnson porta a compimenti l'impegno che Kennedy aveva sottoscritto pochi mesi prima di essere assassinato a Dallas: è sua la firma sul Civil Rights Act che vieta la discriminazione basata su "razza, colore, religione, sesso o origine nazionale" nelle pratiche di lavoro e nelle pubbliche strutture. E a dicembre, quasi a voler proseguire nello stesso solco, il premio Nobel per la pace viene assegnato a Martin Luther King.

Fallita la qualificazione nel 1965, anno in cui viene riconosciuto ai neri il diritto di voto, il quintetto di El Paso ci riprova dodici mesi dopo: Haskins ha setacciato l'America in cerca di nuovi talenti da iscrivere al Texas Western College e, dunque, da aggregare al suo roster. Ha scovato Willie Cager, Nevil Shed e Willie James Worsley a New York, Bobby Joe Hill a Detroit e Harry Flournoy a Gary, polo siderurgico dell'Indiana dove otto anni prima è nato un ragazzino dall'ugola d'oro che canta nel gruppo dei suoi quattro fratelli maggiori: si chiama Michael Jackson e farà parecchia strada.

Come i Miners della stagione 1965-66, del resto: concludono la stagione regolare con un ruolino di marcia impressionante. Dopo ventidue vittorie consecutive si fermano solo all'ultima giornata contro i Seattle Redhawks. È una sconfitta ininfluente ma che fa comunque schiumare rabbia: gli arbitri - racconterà Haskins nelle sue memorie - penalizzano i texani poiché hanno troppi giocatori afroamericani sul parquet, tanto da sorvolare su un palese fallo ai danni di Hill.

I Miners accedono comunque alle finali regionali del Midwest dove si prendono un'agognata rivincita contro Kansas State, affossata per un misero, decisivo punticino (81-80) dopo ben due supplementari.

Come da tradizione, è un'unica sede a ospitare semifinali e finalissima nell'arco di un paio di giorni: siamo al Cole Field House di College Park, nel Maryland. Già così, con la qualificazione alla March Madness e l'ingresso nell'élite della pallacanestro universitaria, l'annata è da considerarsi straordinaria. Eppure ci sono ancora due piccoli passi da compiere: qui si fa la storia. E i ragazzi di El Paso la faranno. In tutti i sensi.

19 marzo 1966: all'atto supremo sono arrivati i Texas Miners e i Kentucky Wildcats. In semifinale hanno superato Utah e Duke con punteggi pressoché identici (85-78 e 83-79), ma non potrebbero essere più diverse. I texani sono alla prima finale, guidati da un tecnico che fino a pochi anni prima allenava nelle scuole femminili. Kentucky, invece, è già stata decorata quattro volte con il titolo NCAA e in panchina siede ancora il santone Adolph Rupp, "l'uomo in completo marrone", l'artefice di tutti quei trionfi.

Non appena le duellanti escono dagli spogliatoi il pubblico intuisce che sarà una sfida tra avversari agli antipodi: i Wildcats, come da tradizione, si presentano con un quintetto di soli giocatori bianchi, i Miners no. Giocano Orsten Artis, David Lattin, i sopracitati Cager, Hill e Worsley: sono tutti afroamericani. Nessun coach ha mai osato tanto in una finale NCAA, anche se a onor del vero appena tre anni prima Cincinnati ne aveva messi in campo tre e Loyola addirittura quattro. Haskins rompe in via definitiva il tabù a settant'anni dalla sentenza Plessy vs Ferguson con cui la Corte Suprema legittimò la segregazione razziale affermando il principio del "separati ma eguali".

"Non ci avevo davvero pensato al fatto d'iniziare con cinque neri", rivelerà in seguito Haskins in persona, smorzando la portata storica della sua decisione. "Volevo solo mettere in campo i miei cinque giocatori migliori. Volevo solo vincere quella partita". Gli farà eco il suo vice Moe Iba: "Avrebbe fatto giocare anche cinque bambini da Marte se questi fossero stati i migliori elementi a sua disposizione".

I pronostici pendono tutti dalla parte dei Wildcats, arrivati alle finali nazionali con il miglior ruolino di marcia. Nell'ambiente, del resto, regna la convinzione che gli afroamericani non siano all'altezza dei bianchi: c'è chi ha persino coniato l'espressione nigger ball per intendere l'inclinazione dei neri a "regredire ai loro impulsi nativi" (sic!) quando giocano assieme sul campo da basket. Ma i Miners colgono avversari, tifosi e giornalisti in contropiede fin da subito, dominando nei rimbalzi e stringendo le maglie della difesa. Alla maniera dei bianchi, insomma. "Lo eravamo più noi di tutte le altre squadre della Final Four", ricorderà più avanti la guardia Willie Worsley. "Giocammo nel modo più intelligente, più noioso e più disciplinato".


I Wildcats reggono il colpo per quasi dieci minuti: da quel momento in poi, i Miners manterranno più o meno saldamente le redini dell'incontro. Shed mette dentro il tiro libero che certifica il vantaggio, le guardie avversarie si fanno soffiare da sotto il naso due palloni che Hill infila dentro l'anello: siamo sul 16-11, un iracondo Rupp chiama il timeout per strigliare i suoi. Niente da fare: Kentucky annaspa e va all'intervallo in svantaggio per 34-31. Il divario non è abissale, certo, ma i numeri dicono che i suoi micidiali tiratori sono in evidente difficoltà.

Nella seconda metà gara l'esito rimane comunque incerto: i quattro volte campioni NCAA sono gente abituata alle rimonte e tallona i dirimpettai senza sosta. Anzi: sono passati poco più di tre minuti e mezzo quando riducono il distacco a un solo punto. I Miners, però, non si scompongono e restano lucidi: Artis e Hill riportano i texani avanti di sei lunghezze fino a raggiungere un massimo vantaggio di nove. Negli ultimi giri di lancette decidono, saggiamente, di rallentare i ritmi. Kentucky può soltanto rosicchiare un paio di punti e nient'altro: finisce 72-65. Il torneo NCAA di pallacanestro, per la prima volta nella storia, è appannaggio di un quintetto formato esclusivamente da afroamericani. Proprio quando la battaglia per i diritti civili sembra definitivamente conclusa, e vinta. Non a caso Pat Riley, una delle stelle di Kentucky offuscate dai texani, definirà quella partita la "proclamazione di emancipazione del 1966".

Per Rupp, invece, è una disfatta che lo accompagnerà letteralmente per il resto dei suoi giorni: sul letto di morte, in una corsia dell'ospedale di Lexington nel 1977, non farà che rievocare quella partita a chi viene a fargli visita.


Nessuno, dopo il fischio della sirena, si preoccupa di fornire ai nuovi campioni una scala per il tradizionale taglio della retina: Shed fa così da appoggio a Worsley che può finalmente portare a casa una reliquia di quell'indimenticabile finale. Soprattutto, i Miners non verranno mai invitati negli studi della CBS per l'Ed Sullivan Show a differenza delle vincitrici del torneo negli anni addietro.

Quegli ultimi rimasugli di razzismo sono tuttavia destinati a sparire: il trionfo del Texas Western College, più avanti rinominato University of Texas El Paso, facilita la presenza di giocatori afroamericani nelle squadre degli stati del Sud. " Ovunque vado le persone si avvicinano e mi ringraziano per aver schierato cinque giocatori neri", annoterà Haskins nel suo libro Glory Road. "Anni dopo un nero venne da me: voleva stringermi la mano e ringraziarmi perché dopo la partita del 1966 le scuole iniziarono l'integrazione e lui ricevette una borsa di studio grazie a quella gara. Era incredibile. Tutto quello che avevo cercato di fare era vincere la finale, di certo non mi aspettavo di essere un pioniere dell'antirazzismo o di cambiare il mondo". Nel 1997 viene omaggiato con l'ingresso nella Basketball Hall of Fame e dieci anni dopo tocca ai suoi ex giocatori.

Le pagine dell'autobiografia di Haskins, che non si schioderà più dalla panchina dei Miners, ispireranno un film prodotto da Jerry Bruckheimer e dalla Disney dall'inevitabile patina buonista con tanto di falsi storici - il lancio di popcorn e bevande dei tifosi dell'East Texas State University all'indirizzo del quintetto dei Miners, mai avvenuto - e controversie - la figura di Adolph Rupp, dipinto come uno spudorato razzista.

Non sarà invece un romanzo quello che avviene in America dopo il 1966: la rivolta nei ghetti sposta la questione razziale dal profondo Sud agli slums delle metropoli di tutto il Paese, la disobbedienza civile e la nonviolenza lasciano il posto alla lotta armata di Black Power fino all'assassinio di Luther King che, secondo il criminale Charles Manson, avrebbe fatto da preludio allo scontro finale tra bianchi e neri.

Niente di tutto questo nella pallacanestro, dove i giocatori neri diventeranno ben presto la regola anziché l'eccezione. Come nell'indimenticabile Dream Team dei Giochi olimpici di Barcellona del 1992, con appena due bianchi in squadra. E se oggi LeBron James, Steve Curry, Kevin Durant e Carmelo Anthony sono tra gli atleti più pagati e famosi sulla faccia del creato, beh, un grazie lo devono a quei cinque studenti in canotta arancione che mezzo secolo fa rivoluzionarono il basket. Per sempre.

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