domenica 2 maggio 2010

Calcio e politica: le tre giornate rosse di Viareggio


Oggi racconto lo storico derby tra Viareggio e Lucchese del 2 maggio 1920, quello in cui perse la vita il guardalinee Augusto Morganti e da cui scaturì una sollevazione popolare nota come le "tre giornate rosse di Viareggio": fu il primo morto in Italia per una partita di calcio. 

L'articolo che leggerete qua sotto non è farina del mio sacco, ma porta la (prestigiosa) firma di Mario Tobino, noto scrittore e psichiatra viareggino scomparso nel 1991. Il resoconto di Viareggio-Lucchese è tratto dal suo libro "Sulla spiaggia e di là dal molo".



"Gli ombrelli dei pini dondolavano torno torno il campo di gioco, un profumo di spiaggia e di resina si spandeva sugli spettatori. Su un lato si alzava una tribuna messa su in fretta, un trabiccolo in gracile equilibrio, i legni appena piallati.

La squadra era composta esclusivamente da viareggini. Nel 1920 non si giocava per denaro; i giocatori erano di qualsiasi provenienza sociale. Il portiere Guidi era figlio di un armatore, l'ala destra Rossino possedeva delle cave di rena, Pippo il Veronesi era impiegato; c'erano dei calafati, degli studenti, dei bagnini.

Per la destrezza che impone il mare a chi fin da bambino lo frequenta, la squadra del Viareggio aveva una sua spavalderia; i popolani ne seguivano ogni vicenda come di una persona cara. La partita più attesa, che esaltava, era contro la Lucchese. Pur di vincere quella, si perdessero tutte le altre.

Fu la gara del 2 maggio 1920 che dette l'avvio alle tre giornate.

Giusto un secolo avanti Maria Luisa di Borbone, costruendo la prima darsena, aveva dato luce a Viareggio. Con geniale benevolenza aveva inoltre decretato che chiunque avesse voluto alzare su quell'arenile delle abitazioni, il terreno sarebbe stato gratis. [...]

L'arbitro è per fischiare l'inizio della partita di calcio tra Viareggio e Lucca.
Viareggio ha ventimila abitanti. Di queste ventimila anime, ottomila sono marinai. Si tolgano dai ventimila le donne e i bambini, si conteggino i calafati che in darsena costruiscono i bastimenti. Un paese tutto di mare.

L'arbitro è per fischiare l'inizio della partita. Ma ribolle segreta un'altra faccenda, che a chi naviga sta a cuore.

I viareggini sono bravi marinai e i loro bastimenti hanno una danzante linea, una scimitarra che taglia il mare dalla prua alla poppa, ammirata dagli esperti che guardano dalle banchine dei porti. Però il porto-canale di Viareggio è pieno di sabbia. I bastimenti sono puledri allenati alla corsa, ma qualcuno tenta di impedire che scendano in pista.

Lo aveva detto lo Zendrini, il matematico veneziano, quando bonificò la palude di Massaciuccoli: "Prolungate sempre più i moli, che arrivino al mare alto, non lasciate che la sabbia faccia muro verso le cateratte".

Appena Lucca divenne una qualsiasi provincia italiana, non ne volle più sapere di Viareggio e del suo porto-canale. Roma domandava alla Giunta provinciale se era giusto aiutare Viareggio, se valeva la pena spendere per i moli. Lucca rispondeva che Viareggio era insignificante, ottimo invece l'antico porto di Livorno.

L'arbitro soffiò nello zufolo l'inizio della partita Viareggio-Lucca. Era il 2 maggio 1920 e questa data assorbiva in sé ogni quistione locale, le diatribe tra Viareggio e Lucca. Recentemente c'era stata la guerra, la morte aveva falciato innumerevoli giovani. Chi era scampato esultava, ardeva sfrenatamente di godere.

L'arbitro soffiò nello zufolo l'inizio della partita Viareggio-Lucca. Le recenti vicende infebbrivano il sangue. E per di più proprio la sera prima, a Viareggio, nella ricorrenza del 1° maggio, una poetessa di Milano, una donna, di nome D'Andrea - nel manifesto c'era scritto poetessa ed anarchica - aveva fatto un comizio al Politeama, il teatro più grande del paese.

Aveva gridato, sudata, la voce perforante, aveva steso le braccia. Come quando si infila un bastone nella brace e d'un tratto si tira su, aveva sollevato le faville: arricchiti pescicani, soldati in trincea, ragazzi morti, vampiri-padroni chinati a succhiare il sangue. Ma presto, prestissimo, gli oppressori sarebbero stati calpestati, allora felicità e immensa giustizia. Aveva finito gridando: "Vendicatevi! Ribellatevi! Fate giustizia!".

Il teatro era colmo di calafati, marinai, falliti o in disuso, impiegatucci, barbieri, gente che sentiva il mare ma non lo navigava, udiva narrare di tempeste ma non le aveva mai affrontate e covava la gran voglia di dimostrare che anche loro erano all'occorrenza audaci.

Mentre l'arbitro della partita soffiava nel fischietto, le donne viareggine sulle porte delle case erano riunite a crocchi a discutere su questa poetessa, una donna; aveva fatto il comizio davanti ai loro uomini. Ne erano tornati eccitati, presto avrebbero spezzato le catene.


La partita era iniziata. Un momento prima, nell'assoluto silenzio, si era alzato come un gridìo di uccelli:
"Per l'Unione Sportiva Lucchese Hipp, Hipp. Hurrà!"
E i lucchesi avevano ricambiato:
"Per lo Sporting Club Viareggio Hipp, Hipp. Hurrà!"
I lucchesi avevano striato il torace di una maglia rosso-scura. I viareggini erano zebrati, le maglie bianche e nere.

I giocatori correvano sul verde dell'erba, a volte sembrava senza motivo. A tratti invece una delle schiere avanzava veloce verso la porta avversaria.

Con brutalità la difesa rompeva l'azione, la palla già rivolava al centro del campo. D'improvviso c'era il tentativo di gettare la palla, lanciandola in aria, al di là della difesa. Il portiere seguiva tutte le mosse, in agguato, gli occhi sulle gambe che manovravano il pallone, le membra con quella rilassatezza adatta allo scatto improvviso.

Gli spettatori erano del tutto divisi. Viareggini e lucchesi, due nazioni diverse. I lucchesi, che avevano accompagnato la loro squadra, non distinguevano che i loro colori, si zittivano temendo quando l'area rosso-nera era invasa, risorridevano quando i rosso-neri invadevano gli zebrati.

Ugualmente gli spettatori viareggini avevano gli occhi soltanto sopra i loro giocatori, gli avversari erano dei provocatori, inammissibile la loro più piccola infrazione; invece la carica abusiva di uno dei loro era segno di maschia forza, rude allegria.

Le urla si alternavano ai cupi silenzi. L'arbitro tentava di attutire le sempre più frequenti intemperanze; col braccio teso indicava il punto della punizione.

Fu al trentacinquesimo minuto del primo tempo, fu Rossino, l'ala destra, che da metà campo prese la fuga. Era piccolo e svelto. Il terzino, la difesa del Lucca, gli andò incontro. Rossino fece una piroetta e tirò un traversone, lanciò la palla all'altra ala, che era libera da avversari. Questa fermò la palla, si accostò verso il centro, si aggiustò la sfera e la calciò nell'angolo destro della porta.

Il portiere volò per afferrarla. La sfiorò soltanto con la punta delle dita. Era dentro. Goal. Il primo punto per il Viareggio.

Per tutto il pubblico viareggino ci furono due secondi di attonimento. Troppo bello per essere vero. Poi si elevò la gioia, si acclamò alla giustizia. Era vero. Viareggio era più forte di Lucca.
Il pallone fu rimesso a metà campo. I giocatori lucchesi furono avvolti dal silenzio. La segreta umana simpatia andò verso di loro.

La squadra lucchese era per tradizione tecnica, signorile, non amante delle appariscenze, della foga popolaresca. I viareggini invece alla garibaldina, si buttavano all'assalto; adesso che avevano vinto erano sfrenati. E uno di loro, senza nessuna ragione, da metà campo, lanciò il pallone in profondità.

Fu solo un moto di esuberanza. Laggiù, dei suoi non c'era nessuno.
La difesa lucchese aspettò l'arrivo del pallone, lo fermò, si volse verso il portiere per porgergli la palla. Poi mutò avviso e si accinse a rimettere lei stessa in gioco. Fu quella indecisione che la perse, il non immaginare l'esaltazione dei viareggini.

Il centravanti del Viareggio, veloce come uno dei cento metri, piombò sul terzino, gli soffiò la palla, la rete era vicinissima. Tirò dentro. Rete! Goal! Un altro. Quella partita dai viareggini tanto attesa si tramutava in trionfo. Ora gli spettatori locali si permisero un beffardo abbandono, gridavano agli spettatori lucchesi antiche frasi, chissà come ritornate a galla: Qui non c'è il Volto Santo. Non si prestano quattrini.

Il primo tempo finì con quel punteggio di due reti a zero.

L'arbitro fischiò la ripresa. I lucchesi avveduti, attenti, tesi, tutti affratellati. Chi si intendeva di gioco e non aveva le traveggole partigiane si accorse che non erano affatto abbattuti per le due reti di scarto. Di continuo erano sotto la porta viareggina, davanti alla quale al diciottesimo minuto si creò un tale annaspio di gambe che invano il portiere tentava, piegandosi, di seguire il pallone. D'un tratto la palla balzellò verso un angolo della porta e fu dentro.

Ci fu un Oh! di sorpresa, non credere ai propri occhi, schiaffo che fa rimanere senza parola. Si era al due a uno. I lucchesi si erano avvicinati.

La partita si fece serrata. I viareggini, sgomenti di perdere la vittoria, si rinserrarono in difesa e si fecero pesanti, all'arte sostituirono l'aggressione. I lucchesi con calma e caparbietà rinnovavano gli attacchi, in una intesa che era il segno di una squadra affiatata e vecchia di tante battaglie.

La partita si avvicinava alla fine, mancavano undici minuti. Gli spettatori viareggini consultavano gli orologi. La squadra lucchese continuava a tessere trame di gioco, puntava con ordine e velocità alla porta avversaria; i viareggini convulsi e inconcludenti.

L'arbitro era di Lucca, cittadino di quella città. A quel tempo le squadre tra loro si sorteggiavano l'arbitro; si gettava in aria una moneta, che aveva indicato il lucchese. L'arbitro si comportava con giustizia, tentava che la partita non degenerasse. Dalla tribuna e dai popolari gli arrivavano gli insulti dei viareggini.

Ancora una volta gli attaccanti lucchesi ordirono un'azione. Il centrattacco passò la palla alla mezz'ala che corse diretta davanti a sé. La difesa del Viareggio l'affrontò. La mezz'ala ripassò la palla al centrattacco, un passaggio perfetto, gli depositò la palla davanti ai piedi.

Il centrattacco era libero, al limite dell'area di rigore, davanti il solo portiere. La difesa del Viareggio gli corse dietro; si accorse che solo sgambettandolo poteva impedirgli il tiro in porta. Il centrattacco rotolò per terra.
L'arbitro era lì vicino, non poteva non avere visto. Decretò il calcio di punizione. Era la semplice giustizia.
I viareggini urlarono al sopruso, alla frode, all'infamia.
Infine era solo un calcio di punizione, non di rigore.

La palla fu messa nel punto dove era avvenuto il fallo. L'arbitro contò i passi che dovevano essere lasciati liberi davanti a chi batteva la punizione; e si mise da una parte in procinto di fischiare.
Le voci calarono d'improvviso e si estinsero, come fosse quistione di vita o morte. L'aria celeste, contornata dagli ombrelli dei pini, fu perforata dal fischio dell'arbitro.

Il calciatore lucchese, che aveva fatto le mosse come stesse lui per calciare la punizione, si era già accordato con un suo compagno: "Io faccio finta, salto sopra il pallone, non lo tocco. Tu vienmi dietro e tira."

I viareggini con i loro corpi avevano fatto un muro. Appena l'arbitro fischiò, corsero verso la palla, e si scompaginarono, aprirono un varco. In quello il secondo giocatore lucchese diresse la mira. Il portiere viareggino non mosse neppure un braccio. La palla era già dentro. Un altro goal lucchese. La parità.

No. Non era possibile, sul loro campo, a Viareggio, dopo la sicura vittoria. Era l'arbitro, un lucchese, voleva umiliarli, ancora una volta, loro che andavano in mare, poveri, i lucchesi terrazzani, che lasciavano il canale pieno di sabbia, li volevano ancora servi, sotto di loro, avari che venivano d'estate a lesinare, anche il carbone per la cucina si portavano, e volevano vincere sul campo del Viareggio.
"Vi si picchia tutti, a uno a uno, giocatori e non giocatori. Basta! Vi si ammazza!".

Lo stecconato che circondava i posti popolari era basso e tentennante. Fu divelto. Una torma si versò sul prato, in direzione dell'arbitro e dei giocatori lucchesi, che corsero verso gli spogliatoi, per fortuna situati presso la tribuna, dalla parte opposta.

I carabinieri di servizio si lanciarono contro quell'orda, i moschetti branditi.
Le loro armi non fecero paura. I carabinieri furono disarmati; si trovarono umiliati e confusi tra la folla. La torma invasata si addensò davanti agli spogliatoi.

I dirigenti del Viareggio si schierarono sulla porta. Tentarono, in quel confuso urlìo, di calmare gli animi.
La squadra lucchese, insieme all'arbitro, si era salvata fuggendo per i campi, così com'era, in mutandine, i vestiti un fagottino sotto il braccio.
Il presidente del Viareggio era sgattaiolato negli spogliatoi: "Svelti. Prendete di qua, da questa porticina. Anche l'arbitro. Nessuno ci pensa. Via, così come siete. Vi prepariamo tre automobili sull'Aurelia. Vedete quel viottolo? Andate sempre avanti. Dopo ottocento metri c'è la via nazionale. Saremo lì con le automobili."

I giocatori e l'arbitro erano già a Lucca a raccontare la tempestosa partita; i carabinieri disarmati ridotti a dei pulcini confusi tra la folla. E nei paraggi del campo sportivo ancora sostavano numerosi gruppi a ripetersi le fasi della partita, alcuni con la torbida speranza che infine i giocatori lucchesi uscissero fuori.

I carabinieri, sdegnati dell'insulto ricevuto, erano corsi alla Tenenza. Erano tempi di ira, di scioperi; i comizi rimbombavano. In forze, al comando del tenente Bagliossi, ritornarono sul luogo. Trovarono tutti quei gruppetti che eccitatamente discutevano.
I carabinieri si divisero in drappellio. Si avvicinarono e, con l'asprezza della rivalsa:
"Scioglietevi, circolate. Non è permesso nessun capannello. Subito. Allontanatevi. Uno per uno."
Ci fu un gruppetto di giovani, che prima ascoltarono sottomessi. Appena i carabinieri furono alla cantonata, gli lanciarono dietro dei sassi.

All'angolo di via Antonio Fratti con via Leonardo, tre persone indugiavano anch'esse a commentare con animazione. Erano tre viareggini: uno era Martinucci, uno straordinario armatore, che anni dopo per la sua ingenua bontà clamorosamente fallì; l'altro era il capitano di mare Antonio Pieraccini; il terzo era il Morganti, un giovane tornato di recente dalla vita militare, dove aveva rivestito il grado di tenente dei bersaglieri.
L'appuntato dei carabinieri Berti, al comando di tre commilitoni, si avvicinò. Il luogo era già distante dal campo sportivo.
"Anche voi. Via! Scioglietevi. Allontanatevi. Ognuno per conto proprio."
L'appuntato aveva in mano la pistola.
I tre lo guardarono interrogativi.

L'appuntato Berti ripeté con ira: "Ho detto: Via!" e mosse l'arma davanti ai loro visi.
Fu il più giovane, il Morganti, che rispose. Era a Viareggio amato da tutti, allegro, confidenziale, suo spasso partecipare a ogni vicenda paesana, tanto è vero che pochi minuti prima lui stesso era sul campo di gioco, in mutandine come gli altri giocatori. Correva su e giù lungo il lato del campo sforbiciando la sua bandierina di guardialinee.

Il Morganti aveva smesso da poco la divisa militare, tenente dei bersaglieri, abituato al comando, le piume al vento davanti ai soldati. Non sopportò di essere trattato da un semplice appuntato con tale alterigia.
"Che vuoi?" disse col volto duro dell'ufficiale, dimenticandosi di essere in borghese: "Mettiti sull'attenti. Ti comando io."

L'appuntato Berti poi disse al processo che era stato provocato e anche insultato. Alzò la pistola contro il Morganti. Premette il grilletto. La pallottola squarciò la gola del giovane. Dalla carotide sgorgò la morte. Il Morganti cadde giù, in quell'angolo di strada viareggina, un fiore strappato.
Si racconta che il tenente Bagliossi, il comandante dei carabinieri, essendo vicino, al vedere quell'uccisione, si mettesse le mani sul viso, rifiutasse quello spettacolo, vinto dalla pietà.

Fu un mucchio di secchi aghi di pino che avvampa. L'incendio percorse tutta Viareggio. Le donne furono le prime, con gli occhi di sangue. Stavano ancora discutendo di quella milanese che la sera prima aveva fatto il comizio al Politeama.
"Una poetessa."
"Che vuol dire?"
"Anarchia."
"Il teatro era zeppo."
"Ha detto che a Milano hanno invaso le fabbriche."
"Noi qui che facciamo?"
"Siamo ignoranti."
"Bisognerebbe spaccare tutto."
"Ci sfruttano."
"I signori."
"La guerra l'hanno fatta i poveri."
"Quanti morti. Gli orfani chi li mantiene?"

E tra quei commenti scoppiò la notizia che un carabiniere aveva ucciso il Morganti.
"Il Morganti? Qule giovanotto? No!"
"Perché? Perché? Era sempre allegro."
"Stava andando a casa. Non aveva fatto nulla."
"Delinquenti."
"Chi lo dirà a sua madre?"
"Perché ci devono ammazzare i figli?"
"I carabinieri sono scappati in caserma. Si sono chiusi dentro."
"Andiamo alla caserma. Facciamogli vedere."
"Diamogli fuoco."

Come fecero a essere così svelte? così tutte unite? Dopo pochi minuti tantissime donne del popolo erano davanti alla caserma dei carabinieri, che aveva porte e finestre sprangate. Era una bellissima giornata di maggio.
Contemporaneamente gli uomini decisero di agire; era l'occasione da tanto sognata.
"Hanno versato il nostro sangue. Morganti era un viareggino."
"Innocente, e l'hanno ammazzato."
"I carabinieri sono del re. Dobbiamo cambiare tutto. È il popolo che deve comandare."
"Ci vorrebbero le armi."
"Ci sono."
"Andiamo al Balipedio."
"E ognuno metta fuori le proprie, anche i fucili da caccia."
"Facciamo la rivoluzione."
"Come in Russia. Il Soviet. È pronto tutto. Intanto dichiariamo subito lo sciopero generale."

Fu fatta una riunione alla Camera del lavoro. Si costituì un Comitato che si sarebbe insediato in Municipio dopo avere scacciato il commissario prefettizio.
"E qui, alla Camera del lavoro, rimane in permanenza la Giunta esecutiva. Sarà lei a dare gli ordini."
"Facciamo la rivoluzione."
"Le barricate. Isoliamo Viareggio, che l'esercito non entri. I carabinieri sono rinserrati in caserma."
"Facciamo la repubblica."
"Si chiude Montramito, la strada per Pisa e per Pietrasanta. Si svelgono i binari della ferrovia."
"Dobbiamo organizzare delle squadre. A ognuno il suo compito."
"È arrivata l'ora."
"Istituiamo le Guardie rosse, il nostro esercito."
"Al Balipedio! a prendere le armi."
Era scesa la notte. Le donne erano ancora davanti alla caserma dei carabinieri a gridare insulti. Si cominciò a lavorare febbrilmente per la rivoluzione".


(Nota: in seguito all'uccisione di Augusto Morganti vi fu una massiccia rivolta popolare, sfociata nel sequestro di armi, nell'assalto alla caserma dei carabinieri, nell'occupazione della stazione ferroviaria e nella chiusura di tutte le vie d'accesso alla città: per tre giorni, dal 2 al 4 maggio, Viareggio fu una città del tutto isolata, priva di ogni forma di autorità. E i tentativi di sedare la rivolta con le armi si rivelarono infruttuosi. 

Fondamentale fu la mediazione dell'onorevole Luigi Salvatori, personalità di spicco del Partito Socialista in Versilia, che invitò tutti a ritornare alla calma per evitare sviluppi negativi della vicenda. 

Tra l'8 maggio ed il 12 giugno furono processati e condannati, seppur a pene piuttosto lievi, venti imputati ritenuti i maggiori responsabili della sommossa mentre il 13 ottobre al Tribunale Militare di Firenze si tenne il processo a Natale De Carli, il carabiniere che aveva ucciso Morganti - non si chiamava dunque Berti, come racconta Tobino: fu assolto per legittima difesa).

Fonti:
J. Foot, "Calcio 1898-2010 storia dello sport che ha fatto l'Italia", BUR, 2010
M. Tobino, "Sulla spiaggia e di là dal molo", Mondadori, 1966.

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